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Che differenza c’è tra RGB e CMYK

Spesso ridotti a uno slogan semplificato, questi due mondi nascondono differenze profonde legate alla fisica della luce e della materia. RGB lavora con l’emissione luminosa, CMYK con la sottrazione tramite inchiostri. Ma non si tratta solo di supporto: cambia tutto, dalla gestione del bianco e del nero, alla gamma colori, fino al modo in cui percepiamo le immagini. Anche la stampa può essere luminosa (come nel caso di LightJet o Lambda), e anche il digitale può essere pensato in quadricromia. Conoscere davvero la distinzione tra sintesi additiva e sottrattiva è fondamentale per chiunque voglia controllare la resa finale delle proprie immagini, che siano su schermo o su carta.

Quando si parla di RGB e CMYK si sente spesso dire che il primo riguarda il mondo digitale e il secondo la stampa. Ma questa è una semplificazione che rischia di essere fuorviante.
In realtà, per un computer, “stampa” significa ogni tipo di uscita visibile: un foglio di carta, uno schermo, una proiezione, perfino una stampa fotografica tradizionale.
Non è quindi il tipo di supporto che determina la differenza, ma il modo in cui il colore viene generato.

La distinzione reale tra RGB e CMYK nasce infatti da due principi fisici opposti: la sintesi additiva e la sintesi sottrattiva.
RGB – Red, Green, Blue – lavora con la luce: si parte dal nero, cioè dall’assenza di emissione, e sommandola si arriva al bianco. È il principio che usano i monitor, i proiettori, gli smartphone.
CMYK – Cyan, Magenta, Yellow e Key (nero) – funziona in sottrazione: si parte da una superficie bianca che riflette tutta la luce e si sottraggono porzioni dello spettro luminoso attraverso gli inchiostri. Più inchiostro si sovrappone, meno luce viene riflessa, e di conseguenza si arriva al nero.

Spesso si pensa che la stampa significhi sempre conversione in quadricromia CMYK, ma non è così. Esistono processi di stampa cromogena RGB come il LightJet e il Lambda, dove l’immagine digitale in RGB viene trasferita su carta fotosensibile tramite laser rosso, verde e blu. Qui si lavora esattamente come in un monitor: con la luce. Nessuna conversione in quadricromia, nessuna sottrazione di colore. In questi casi la gestione colore deve rispettare profili specifici, ma resta fondamentalmente una “stampa luminosa”, pur su supporto fisico.

Questa distinzione ha implicazioni pratiche enormi, a partire dal concetto di bianco. In RGB il bianco si ottiene illuminando al massimo tutti i canali (255, 255, 255), mentre in CMYK il bianco non si crea: è il supporto stesso. È la carta, o il materiale di base, che fornisce il bianco, ed è per questo che la qualità del supporto è cruciale in stampa tradizionale. Una carta patinata restituirà un bianco più brillante rispetto a una carta opaca o naturale. Sullo schermo, invece, possiamo ottenere un bianco perfetto semplicemente calibrando correttamente la sorgente luminosa.

Ma questa non è l'unica differenza. I due metodi si basano anche su una differente analisi dei valori dei singoli colori: la sintesi additiva permette 256 livelli di controllo per ogni singolo colore, mentre la sintesi sottrattiva consente una variazione da 0 a 100% di densità del colore. In pratica un colore rosso pieno sarà simile a RGB (255,0,0) e CMYK (0,100,100,0), questa differenza di calcolo è implicita nel differente sistema di lavoro dei due metodi colore.

Anche la profondità del colore quindi cambia radicalmente. In RGB, lavoriamo con milioni o miliardi di colori, sfruttando spazi colore ampi come sRGB, AdobeRGB o ProPhotoRGB. In CMYK, la gamma di colori è più ristretta: certi verdi molto accesi, alcuni blu elettrici, o arancioni intensi semplicemente non possono essere riprodotti con inchiostri tradizionali. E non solo: ogni processo di stampa ha il suo spazio colore effettivo, dipendente da carta, inchiostri e tecnologia di stampa.

Ciò che però viene spesso ignorato è il ruolo del “Key”, ovvero il nero in CMYK. Il nero non serve solo per scurire l’immagine: consente di dare struttura, profondità e purezza ai toni scuri, evitando di ottenere neri “fangosi” dalla somma di ciano, magenta e giallo. È il Key che permette di mantenere nitidi i dettagli più fini, donando stabilità ai contrasti sulla carta stampata.

Proprio per queste differenze, ci sono situazioni in cui, anche se un’immagine verrà visualizzata su schermi RGB, è indispensabile trattarla pensando in CMYK. Un esempio emblematico è dato dalle storiche fotografie di National Geographic. L’estetica dei reportage era costruita considerando la resa in quadricromia: toni caldi, ombre compatte, colori calibrati per la carta stampata e una forte struttura del nero che definiva i contrasti e le texture. Per mantenere la coerenza visiva e rispettare quell’identità stilistica, le immagini devono quindi essere gestite e corrette pensando fin dall’origine alla stampa in CMYK, anche qualora venissero utilizzate solo a monitor o per il web.

Comprendere la differenza tra sintesi additiva e sintesi sottrattiva significa anche capire come cambiano i linguaggi visivi: in RGB è facile ottenere bianchi brillanti e luminosi perché si aggiunge luce, mentre in CMYK bisogna “proteggere” il bianco del supporto, evitando di contaminarlo. Viceversa, per i neri, è la stampa CMYK che permette di ottenere toni più pieni e profondi grazie all’inchiostro nero specifico, mentre nei dispositivi RGB il nero dipende dalla capacità del dispositivo di bloccare l’emissione luminosa.

In definitiva, RGB e CMYK non sono solo tecnologie diverse: rappresentano due modi completamente diversi di costruire la percezione del colore. Chi lavora seriamente con le immagini – che sia un fotografo, un grafico o un artista digitale – deve saper prevedere come il colore si comporterà sul supporto finale. Perché un’immagine non è solo fatta di pixel o di punti di stampa: è fatta di luce, di materia, e di come l’occhio umano interpreta l’interazione tra le due.

Leica Q (Typ 116) - Comparazione profilo
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A volte un’immagine vale più di mille parole. A sinistra, una fotografia scattata in un ambiente con evidenti complessità di illuminazione, sviluppata con il profilo Adobe Color; a destra, la stessa immagine, ma con il profilo TheSpack. Per questo confronto sono stati utilizzati profili di seconda generazione, ottimizzati nel 2021, quindi ancora lontani dai progressi successivi. Questa immagine è particolarmente critica a causa di una sfumatura in saturazione, che, se non correttamente normalizzata, genera irregolarità. Spesso, il risultato ottenuto con il profilo Adobe porta a un giudizio negativo sulla qualità del file e della fotocamera stessa. Pur utilizzando una curva tonale simile per il contrasto, il profilo TheSpack ha prodotto un risultato nettamente superiore. Si nota una maggiore coerenza cromatica, estensione del dettaglio e leggibilità in tutte le aree dell’immagine. I disturbi e la granulosità, evidenti con Adobe, sono stati ridotti grazie alla struttura del profilo TheSpack, progettato per bilanciare correttamente i canali in uscita. Questo limite nei profili Adobe spesso causa un calo di qualità che viene erroneamente attribuito al mezzo tecnico. Il miglior dettaglio, la resa tonale superiore e l’assenza di irregolarità non sono il risultato di correzioni post-produzione, ma di un profilo colore studiato e sviluppato accuratamente.

Panasonic S1R - Impercettibili difetti
Before
After

Siamo spesso abituati a guardare l’insieme di un’immagine, perdendo di vista il dettaglio che la definisce. Questa riflessione, di per sé, potrebbe sembrare fuori luogo, considerando che la fotografia si basa sulla percezione visiva, sull’impatto che un soggetto, la luce, l’interpretazione e le dinamiche di una scena ci trasmettono. Sarebbe quindi naturale non concentrarsi sui dettagli. Eppure, qui nasce un grande paradosso: investiamo in lenti costose, glorificando la loro resa. Cerchiamo di correggere le aberrazioni, inseguire la risoluzione, applicare texture e maschere di contrasto per enfatizzare i dettagli, eppure ci dimentichiamo spesso di un elemento fondamentale: il profilo colore, che può distruggere tutto questo lavoro. Guardando ora il dettaglio ingrandito di una fotografia sviluppata con il profilo colore Adobe Color e la stessa immagine con TheSpack. La scelta di come intervenire su un profilo colore, quali parametri considerare e come ottimizzare la resa di un sensore porta inevitabilmente a conseguenze che impattano sulla qualità finale dell’immagine. Questo può addirittura vanificare il lavoro di ingegneri e progettisti che hanno creato ottiche di altissima qualità. Nell’immagine sviluppata con il profilo Adobe Color, la luce di un neon si disperde, lasciando un evidente alone attorno alla sorgente luminosa. Questo fenomeno riduce la consistenza nelle alte luci, compromettendo la texture e il dettaglio, e alterando la qualità complessiva della foto. Un piccolo difetto che, tuttavia, incide pesantemente sulla resa delle lenti e si manifesta su tutta l’immagine, indipendentemente dalle condizioni di illuminazione. Ovviamente, questa considerazione nasce dal fatto che un profilo colore può essere generato tenendo conto di differenti parametri, inclusi quelli che determinano lo scostamento di tonalità e saturazione al variare della luminosità. Per questo motivo, abbiamo scelto di suddividere il nostro sistema in modo da renderlo efficace in una vasta gamma di situazioni. Abbiamo implementato soluzioni specifiche per ogni singola fotocamera, così da ottenere risultati ineccepibili, indipendentemente dalle condizioni di ripresa. Questo approccio ci permette di garantire una resa cromatica coerente e precisa, riducendo al minimo le deviazioni che possono compromettere la qualità dell’immagine.

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